Il venticinquennio di Papini
Pubblicato in: Il libro del giorno, rassegna mensile internazionale, anno X, fasc. 8, pp. 393-395
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Data: agosto 1927
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Quando vedo tanti galantuomini affaticarsi a interpretare Papini, mi viene un po' da sorridere: Papini? un uomo così semplice, così lui, così chiaro; nemico delle cose complicate, nebulose, dei sistemi, delle trappole filosofiche e di altri simili lacchezzi.
Quelli che si avvicinano a lui con l'intento di farne un libro, bisogna che ricorrano a fonti, direi così, erudite e letterarie, oltre che alle proprie esperienze, perchè tradurre e spiegare la sua limpida anima viva sarebbe compito forse solo di un poeta o di un pittore, in una sola espressione rapida e intuitiva.
La mirabile forza di espansione che Papini ha sempre esercitato sui coetanei e sui contemporanei, l'interesse che la sua persona ha suscitato ognora anche su quelli che fingono di non volersi occupare di lui o su coloro che lo odiano (e non si sa perchè), sono dovute, più che alle pretese complicanze su cui si sbizzarriscono gli interpreti, appunto a questa veramente papiniana schiettezza unitaria di aspetti, di forme, di intenti. La grandezza è sempre fatta di una innocenza e di una semplicità tali che agli occhi dei più apparirebbero stupefacenti, se i più potessero, in molti casi, capirle.
Enzo Palmieri, un giovane critico che si è reso già molto noto, per certe serie interpretazioni del suo tempo, come egli le chiama, intorno a Croce, a Borgese (una su D'Annunzio è di prossima pubblicazione) e per alcuni profili (D'Annunzio, Manacorda) ha tentato ora anche Papini. E sebbene da buon meridionale abbondi nel frasario critico-filosofico, e nel circuire di molte frasi e di non poche parole certe situazioni abbastanza illuminate, con l'intenzione di renderle a suo credere più chiare, piace poter dire che il suo entusiasmo, controllato e dominato, lo porta a superare tutti i pregiudizi che un giovane, della sua generazione e della sua formazione, potrebbe avere accumulati intorno all'opera e all'importanza di Giovanni Papini. C'è stato qualcuno che ha voluto contrapporre, simbolicamente, i trentenni ai quarantenni; significando nei trentenni un insieme di gente che dovrebbe far piazza pulita dei quarantenni: significati questi a loro volta nei vociani, o meglio nei leonardiani, e in coloro che hanno dei vociani, dei lacerbiani, dei leonardiani accettata, o mantenuta viva nei loro spiriti, l'idea informatrice. Trentenni e quarantenni, sempre, si intende, da un punto di vista artistico, letterario, culturale.
Ma il libro di Palmieri è la prova che questo dualismo e questa opposizione non esistono: perchè Palmieri intende che la sua ricostruzione scrupolosa e coscienziosa di una si alta personalità sia anche la descrizione del dramma morale del tempo nostro. Eppure, il libro di Palmieri 1
1 ENZO PALMIERI Interpretazioni del mio tempo. Giovanni Papini, con una Bibliografia (1902-1927), a cura di TITO CASINI. In 16, pp. 310. - Firenze, Vallecchi editore.
è utile, anche se rappresenti solo la sua394
anima, messa a contatto con quella del grande scrittore, e anche se ciò che egli dice di Gianfalco, delle rapsodie del Leonardo, della battaglia pragmatista, dell'intermezzo religioso, del donchisciottisrno, dell'Uomo finito, della Storia di Cristo, della Spelonca dell'Omo Salvatico, e dell'ultima catarsi, espressa nella vasta dolce serena impetuosa poesia di Pane e Vino, sia, insomma, pura commossa e sincera espressione di Enzo Palmieri, il quale parli per sè, che è molto, non a nome di un coro in cui si perdano le singolarità e le distinzioni.
C'è un punto nella trattazione del Palmieri che mi pare abbastanza notevole; là dove definisce Papini: un cercatore di Dio. Si, Papini è stato sempre un cercatore di Dio, da quando ragazzo, in una delle novelle scritte con ingenuità ma non puerili, narrava di quel sapiente che cerca la parola spiegatrice tra le fiamme dell'Hecla, ruggente tra le nevi abbaglianti. Da quando, poi, con le riviste apportatrici di una parola nuova alla gioventù italiana, volle far piazza pulita di ciò che nel pensiero e nella letteratura rappresentava mollezza, impaccio, erbaccia, ortiche; e nella furia talvolta non badò alla misura, pensando col suo antico concittadino che i colpi non si danno a patti. Da quando, redattore capo in una rivista profetica di una futura patria più grande e più degna, in mezzo al dilagare delle attaccaticce teorie democratiche e socialistiche e liberali, osava rialzare e sventolare valore di quelle idee su cui si è poggiata e poggia l'umanità, nei suoi momenti di forza e di solidità.
È riprodotto nel volume un ritratto di Papini, fatto da Giovanni Costetti, a tempo del “Leonardo„. C'è, anche in Papini di quel tempo, un che di spettrale, che però è quasi religiosamente espresso: le ampie ali del goletto paiono insegne dì un ordine ecclesiastico: sulla faccia, che sembra voglia conservare un segreto di qualche cosa che debba rimanere inespresso, corre quasi un'ispirazione, un'attesa, una speranza, che invano la piega orgogliosa delle labbra e la mano bella sensibile ma inerte cercano di ricacciare dentro.
È aggiunta al volume una minuziosa bibliografia, compilata dal dott. Tito Casini, la quale dal 1902, da quell'articolo di Papini sulla teoria psicologica della previsione, pubblicato nell'Archivio per l'Antropologia e l'Etnologia, (al tempo in cui l'ansioso giovane, già ghiotto di conoscere uomini, valori cd esperienze, si era avvicinato a quel curioso e valente tipo di scienziato che fu M. G. Regàlia) arriva fino alla ristampa (1927) di Il Pragmatismo (3a edizione). Seguono tutte le traduzioni, tutti i saggi, studi, articoli pubblicati nel mondo sull'opera di Giovanni Papini; e forse mai lettura di elenchi bibliografici è stata cosi interessante e bizzarra, nel far ritrovare insieme, recensori e critici, intorno a Giovanni Papini, nomi si diversi, e svariati: nomi dei quali, poi, alcuni, hanno avuto si largo svolgimento, qualche volta, addirittura, nomi racchiudenti un formidabile dinamismo: nel “Giornale del Mattino„, del 31 agosto 1911, Benito Mussolini parlava delle Memorie d'Iddio.
Non deve credersi però che Papini prima dell'articolo del 1902 fosse un autore assolutamente inedito: egli aveva già scritto alcune cose d'occasione in numeri unici fiorentini, uno scritto sulla letteratura portoghese in Italia comparso nella “Gazzetta del Popolo della Domenica„; e in più aveva già composto tutte quelle opere, o a dir meglio, quei tentativi di romanzi d'avventure, di saggi, di commenti sulle cose del mondo, in quei giornali e giornaletti manoscritti di cui io ho dato notizia in un mio abbozzo su Papini ragazzo, cioè su quel precoce fanciullo che fu miracolosa preparazione, quasi segnata da Dio, per tanta vasta, in seguito, affermazione di vita spirituale tra le genti.
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Ma col 1902 comincia quella espressione di mondo papiniano, spiegata agli occhi di tutto e che coincide con tanta espressione di vita nazionale: ché pochi in Italia e nella nostra tradizione letteraria sono stati, come Papini, artisti e ammonitori insieme, poeti e pensatori: senza dover ricorrere a generi di scrittura amena o incitatrice o ufficiosamente accademica.
Sono dunque venticinque anni di alta operosità che a libro di Palmieri, composto a Cattolica, di Romagna, nell'estate dell'anno scorso, viene quasi a ricordare e a celebrare.
In questo compiuto venticinquennio dell'opera papiniana, gioverà a tutti riguardarne il cammino, che è il cammino tormentoso e tormentato di un'anima, sempre mirante all'alto e al meglio: non solo per sè ma per gli altri. Pare quasi che in questi venticinque anni abbia echeggiato a stormo, per via di lui, la campana che ha per motto: non tacebo. Ora, avanti che Papini riprenda il cammino per nuove terre, egli sente che gli viene il saluto di quelle cose e di quelle idee sante che seno così grandi nel mondo: sincerità, famiglia, amicizia; e che s'imprimono, quando sono purificate e salvate da ogni corruzione, del nome di Cristo.
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